sabato 22 novembre 2014

Dove finisce il romanzo, cominciamo noi stessi

Commento a "Le ore" di Michael Cunningham. Le parte in corsivo sono riprese dal testo.

Edizione Bompiani
Virginia.
Laura.
Clarissa.
Io.
E una canzone di Lucio Dalla e De Gregori.

Amare la vita, Londra, questo momento di giugno e Roma, i vicoli e la quotidianità che li pervade.

Essere profondamente contente per delle immagini improvvise che si presentano a spezzare la routine e che sembrano magiche – irreali, che durano un attimo e sembrano essere state realizzate perché tu le possa apprezzare, come l’ombra di un uccello che lascia strisce di bianco brillante e verde.

Essere piene di un amore così forte, così privo di ambiguità, che assomiglia all’appetito.

Fare cose strane, come affittare una camera in albergo per poter passare qualche ora a leggere o sentirsi in pace in un centro commerciale tra gli scaffali pieni di cose anche se non le si vuole comprare.

Desiderare che un momento duri per sempre o almeno abbastanza a lungo per essere vissuto e ricordato come merita.

Vedersi dal di fuori e chiedersi se la nostra immagine corrisponde a quello che siamo veramente, a quello che abbiamo dentro. E chiedersi come fanno gli altri a ricordarsi, a fare in modo di essere, ogni giorno e ogni ora, sempre la stessa cosa, a recitare sempre lo stesso personaggio?

Fermarsi all’improvviso all’angolo di un strada per ricordare un momento passato e chiedersi come sarebbe stato il futuro rifiutato, che si sarebbe svolto da qualche parte in Italia o in Francia, fra grandi stanze assolate e giardini; sarebbe stato fitto di infedeltà e grandi battaglie; sarebbe stato una grande e duratura storia d’amore basata sull’amicizia così bruciante e profonda che li avrebbe accompagnati fino alla tomba, e forse anche oltre.

Pensare che sarebbe potuta entrare in altro mondo.

Chiedersi come sarebbe stato un bacio.

Sentirsi pazza solo a pensare certe cose, perché lei vuole essere amata. Vuole essere una madre brava che legge una fiaba al figlio, vuole essere una moglie che apparecchia una tavola perfetta. Non vuole, non vuole affatto essere una donna strana, una creatura patetica, piena di stranezze, di rabbia, solitaria, cupa, una persona sopportata ma non amata.

Sapere che il diavolo è nascosto dietro un mal di testa. Riconoscere che il diavolo è non credere in se stesse, è non aver fiducia in se stessa. Il diavolo succhia tutta la vita dal mondo, tutta la speranza, e quel che resta quando il diavolo ha finito è un regno di morti viventi – privo di gioia, soffocante.

Ascoltare il racconto di un amico che la notte prima ha fermato l’automobile nel deserto dell’Arizona ed è rimasto immobile sotto le stelle finché non ha sentito la presenza della sua anima, o comunque si voglia chiamarla, quella parte che era stata un bambino e che ora – sembrava solo un momento dopo – era in piedi nel silenzio del deserto, sotto le costellazioni. E ritrovarsi in questo racconto, perché quando si è di fronte al panorama di un paesaggio ci si sente vivi e allo stesso tempo parte di qualcosa.

Amare i treni e le loro destinazioni e quella felicità che si prova nel momento in cui si è diretti verso un nuovo posto, mentre alle spalle si è lasciata una situazione complicata e, sentirsi liberi, come gli spiriti, liberati dai loro corpi terreni ma ancora in possesso della parte essenziale di sé.

Chiedersi dove finisce il romanzo e cominciamo noi stessi e come è possibile trovare sempre qualcosa di noi in quello che si legge.


Decidere di amarsi e sorridere perché il passato è diventato – lo abbiamo fatto diventare – un bel ricordo e non un rimpianto. Andare avanti, senza paura e senza bisogno di certezze.


Nessun commento:

Posta un commento