Commento
a "Le ore" di Michael Cunningham. Le parte in corsivo sono
riprese dal testo.
Edizione Bompiani |
Virginia.
Laura.
Clarissa.
Io.
E
una canzone di Lucio Dalla e De Gregori.
Amare
la vita, Londra, questo momento di giugno e Roma, i vicoli e
la quotidianità che li pervade.
Essere
profondamente contente per delle immagini improvvise che si
presentano a spezzare la routine e che sembrano magiche – irreali,
che durano un attimo e sembrano essere state realizzate perché tu le
possa apprezzare, come l’ombra di un uccello che lascia
strisce di bianco brillante e verde.
Essere
piene di un amore così forte, così privo di ambiguità, che
assomiglia all’appetito.
Fare
cose strane, come affittare una camera in albergo per poter passare
qualche ora a leggere o sentirsi in pace in un centro commerciale tra
gli scaffali pieni di cose anche se non le si vuole comprare.
Desiderare
che un momento duri per sempre o almeno abbastanza a lungo per essere
vissuto e ricordato come merita.
Vedersi
dal di fuori e chiedersi se la nostra immagine corrisponde a quello
che siamo veramente, a quello che abbiamo dentro. E chiedersi come
fanno gli altri a ricordarsi, a fare in modo di essere, ogni
giorno e ogni ora, sempre la stessa cosa, a recitare sempre lo
stesso personaggio?
Fermarsi
all’improvviso all’angolo di un strada per ricordare un momento
passato e chiedersi come sarebbe stato il futuro rifiutato,
che si sarebbe svolto da qualche parte in Italia o in Francia, fra
grandi stanze assolate e giardini; sarebbe stato fitto di infedeltà
e grandi battaglie; sarebbe stato una grande e duratura storia
d’amore basata sull’amicizia così bruciante e profonda che li
avrebbe accompagnati fino alla tomba, e forse anche oltre.
Pensare che
sarebbe potuta entrare in altro mondo.
Chiedersi
come sarebbe stato un bacio.
Sentirsi
pazza solo a pensare certe cose, perché lei vuole essere
amata. Vuole essere una madre brava che legge una fiaba al figlio,
vuole essere una moglie che apparecchia una tavola perfetta. Non
vuole, non vuole affatto essere una donna strana, una creatura
patetica, piena di stranezze, di rabbia, solitaria, cupa, una persona
sopportata ma non amata.
Sapere
che il diavolo è nascosto dietro un mal di testa. Riconoscere che il
diavolo è non credere in se stesse, è non aver fiducia in se
stessa. Il diavolo succhia tutta la vita dal mondo, tutta la
speranza, e quel che resta quando il diavolo ha finito è un regno di
morti viventi – privo di gioia, soffocante.
Ascoltare
il racconto di un amico che la notte prima ha fermato l’automobile
nel deserto dell’Arizona ed è rimasto immobile sotto le stelle
finché non ha sentito la presenza della sua anima, o comunque si
voglia chiamarla, quella parte che era stata un bambino e che ora –
sembrava solo un momento dopo – era in piedi nel silenzio del
deserto, sotto le costellazioni. E ritrovarsi in questo
racconto, perché quando si è di fronte al panorama di un paesaggio
ci si sente vivi e allo stesso tempo parte di qualcosa.
Amare
i treni e le loro destinazioni e quella felicità che si prova nel
momento in cui si è diretti verso un nuovo posto, mentre alle spalle
si è lasciata una situazione complicata e, sentirsi liberi, come gli
spiriti, liberati dai loro corpi terreni ma ancora in possesso della
parte essenziale di sé.
Chiedersi
dove finisce il romanzo e cominciamo noi stessi e come è possibile
trovare sempre qualcosa di noi in quello che si legge.
Decidere
di amarsi e sorridere perché il passato è diventato – lo abbiamo
fatto diventare – un bel ricordo e non un rimpianto. Andare avanti,
senza paura e senza bisogno di certezze.